9
23/04/2014
Sabato scorso Il Giornale ha pubblicato un lungo reportage di Luigi Mascheroni da Predappio. Nella città natale di
Benito Mussolini il sindaco Giorgio Frassineti, del Pd, vorrebbe trasformare la casa del Fascio (bellissima dal punto
di vista architettonico, ma abbandonata da anni) in un museo del Fascismo: il primo in Italia. L’idea è sottrarre la
città del Duce ai pellegrinaggi dei nostalgici e istituire un museo – senza apologia né celebrazioni, ma rigoroso la
punto di vista storico – per cercare di capire come fu davvero l’Italia fascista. Sul tema, domenica è intervenuto lo
storico Roberto Chiarini; oggi è la volta di Nicholas Farrel, giornalista e storico inglese, autore insieme con
Giancarlo Mazzucca del volume Il compagno Mussolini (Rubbettino, 2013). Oggi sul tema scrive Francesco Perfetti,
docente di storia contemporanea presso la facoltà di Scienze politiche della LUISS Guido Carli di Roma.
Il fascismo in vetrina ha senso solo nel museo dell’Identità
nazionale
Ogni esposizione ha carattere celebrativo: dunque politico, non storico. E l’unità della nazione è un
bene da conservare.
Francesco Perfetti
Leggendo, in questi giorni, la proposta del sindaco di Predappio di trasformare la Casa del Fascio della città natale del
Duce in un museo permanente sulla storia del fascismo per spiegare, al di là delle passioni politiche e delle
strumentalizzazioni di parte, un periodo di storia del nostro Paese mi è venuta alla mente una considerazione di Catone
il Censore: «È meglio che gli uomini si chiedano perché non ho una statua, piuttosto che si domandino perché ne ho
una». I musei, in fondo, sono come i monumenti o come le statue: celebrativi, nella migliore delle ipotesi, o, nella
peggiore, destinati a costruire o rafforzare dei «miti fondanti».
Ha dunque senso, storico in primo luogo e politico in secondo luogo, istituire un museo permanente dedicato al
fascismo nella speranza che esso diventi, se non proprio lo strumento, quanto meno il pretesto per inaugurare una
stagione che porti al superamento delle contrapposizioni ideologiche e, magari, a una riconsiderazione storiografica,
sine ira ac studio, del fascismo? Di questo superamento ci sarebbe certamente bisogno. L'Italia di oggi si regge ancora,
piaccia o non piaccia, sulla egemonia culturale, di derivazione gobettiana e gramsciana, che fa dell'«antifascismo» e
del mito dell'«unità della Resistenza» il suo punto forte. Si regge, in altre parole, su una concezione - diciamolo pure -
«totalitaria» della storia: essa implica una valutazione di tipo «virtuistico» degli avvenimenti fondata sulla necessità di
mettere tutto il bene da una parte e tutto il male dall'altra e, anzi, di espungere addirittura dalla considerazione dello
storico ogni fatto che non risulti funzionale alla «vulgata» ufficiale. Il fascismo, per decenni e decenni, è stato un tabù
storiografico: lo stesso Benedetto Croce, prima di presentarlo come una «malattia morale» che aveva infettato l'Italia e
l'Europa, lo aveva sbrigativamente liquidato come una «parentesi» nella storia d'Italia quasi a far capire che di essa
non era neppure il caso di occuparsi. Poi le cose sono cambiate e il fascismo è diventato oggetto di storia. E di studi
storici approfonditi che ne hanno mostrato la complessità.
Un museo dedicato al fascismo - alle sue origini, ai suoi sviluppi, alle sue realizzazioni e ai suoi lasciti, nel bene e nel
male - non può avere la funzione che hanno gli studi storici, di comprensione e approfondimento. Per sua stessa
natura, ogni museo, quale che sia, ha una dimensione celebrativa, di recupero e conservazione della memoria,
individuale e collettiva, di persone o periodi storici. E quindi si risolve nel proporre una lettura che finisce per ruotare
attorno a ciò che è musealizzato: una lettura, al di là delle intenzioni, politica e non già storica. Mi chiedo, per
esempio, come un museo dedicato alla storia del ventennio fascista possa contribuire a far capire le pulsioni e le anime
dell'antifascismo o, ancor di più, a chiarire le vicende della Repubblica Sociale Italia in contrapposizione a quelle del
Regno del Sud.
Tutto ciò - sia ben chiaro - non significa affatto che un museo del genere non abbia una sua utilità. Nel caso di
Predappio, per esempio, o anche di Salò, esso avrebbe intuibili e non disprezzabili ripercussioni di tipo turistico e, di
conseguenza, economico. E, probabilmente, indiscutibili meriti nell'evitare la dispersione di materiali documentari.
Ma, per carità, non tiriamo in ballo la ricerca storica. Né, tanto meno, il proposito di contribuire a costruire una storia
condivisa e condivisibile. Per giungere a un obiettivo del genere sarebbe necessario percorrere altre strade.
Bisognerebbe, semmai, pensare a un altro tipo di museo, a un museo della «identità nazionale» all'interno del quale il
fascismo potrebbe trovare un suo posto nel quadro della ricostruzione della evoluzione storico-politica e culturale del
Paese. Ma, allora, la sua localizzazione non potrebbe più essere Predappio.
Alcuni anni or sono, recandomi a Mosca come capo del servizio storico del Ministero degli Esteri per formalizzare un
accordo sulla pubblicazione di documenti diplomatici paralleli dei due Paesi, mi capitò di visitare, all'interno del